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Riflessioni sul saggio: Vittorio Lingiardi, Mindscapes Psiche nel paesaggio

La lettura di Mindscapes mi ha cattura e mi ha fatto attraversare un affascinante labirinto multisensoriale dentro e fuori un universo d’immagini, forme e parole. In ogni capitolo l’autore, Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, apre scenari diversi come giocando con un caledoscopio che permette di comporre e ricomporre riflessioni psicoanalitiche, letterarie e neurestetiche strutturando di volta in volta scenari inusuali e originali. Le immagini di opere pittoriche che arricchiscono le pagine del libro sono spazi che contrappuntano gradevolmente il flusso della scrittura così che, per il lettore, l’effetto del viaggio nel paesaggio si fa ancora più realistico e seducente.

L’idea centrale è che, non solo non siamo separabili dai nostri luoghi, ma che che ci vogliono molti luoghi dentro di noi per costruire la nostra storia e la nostra identità. Attraverso questo legame si crea una relazione stretta fra la psiche e i luoghi che attraversiamo: il paesaggio è in noi e noi siamo in lui non solo con lo sguardo ma con tutta la componente corporea e sensoriale. “Sonomindscapes: paesaggi raccolti nella psiche e psiche immersa nei paesaggi. Percezioni visive che diventano visioni mentali”. Nella nostra relazione con l’ambiente, fin dall’inizio della vita, si crea una connessione che include la discriminazione cognitiva e la componente emotiva mediata dalle diverse figure di chi ci ha cresciuti e si è preso cura di noi. In questa circolarità si forma l’identità e la” sintonizzazione esteticacon il mondo da cui dipenderanno i nostri gusti e disgusti”.  Come in una figura circolare i paesaggi che ci appartengono sono tali “perchè li abbiamo riconosciuti nel momento in cui li abbiamo trovati” e “sono il risultato dell’incontro tra ciò che vediamo (…) e la nostra estetica degli oggetti, la nostra memoria e la nostra solitudine.”

Attraverso riflessioni psicoanalitiche, estetiche e artistiche l’autore ci conduce alla scoperta di un paesaggio che ci appartiene ma che allo stesso tempo siamo in grado di rimodellare e rinnovare nella memoria.

Il libro è strutturato per temi dai nomi suggestivi: “La fioritura umana”, Tasche piene di farfalle”,” Paesaggi neuroestetici”, “Chiudete gli occhi e vedrete”, “Il riverbero”, “Dis-orientarsi” all’interno dei quali l’autore viaggia liberamente anche al di là dei confini tracciati dal titolo stesso.

Lingiardi scrive un volume complesso e non facile ma sicuramente curioso che ha bisogno di essere gustato con lentezza e assaporato con calma. Un libro che si può leggere e rileggere a pezzi un po’ come un saggio o una poesia regalandoci uno spazio di tempo dilatato e capace di abbracciare le infinite sfumature che l’autore con cura disegna.

 

Cosa ha che fare tutto questo con la nostra rubrica di recensioni musicali?

La lettura di Mindscapes permette di fare un parallelismo con il mondo sonoro e con una sorta di paesaggio acustico che si configura ancor prima di nascere e che già dai primi giorni di vita contribuisce a creare l’identità, questa volta sonora, di ciascuno di noi. L’esperienza dell’ascolto non è riferita solo all’esterno ma anche alla capacità di ascoltare il proprio mondo interiore indagando cosa risuona nel nostro intimo unitamente agli eventi sonori che hanno contribuito a nutrire la nostra vita. Da questa prospettiva anche per i suoni possiamo affermare che “esiste un legame tra come siamo e la forma che diamo al nostro mondo interno” e come, nelle varie fasi della vita, ciascuno di noi è capace di creare il proprio scenario acustico che più gli corrisponde.

Il legame tra udito e fonazione, dove il primo determina il secondo, ha permesso di provare che gli uomini non sentono allo stesso modo in ogni parte del mondo e, secondo Tomatis, questa è una delle origini delle grandi varietà di lingue umane. (A.Tomatis)Il tutto a conferma del nostro costante legame tra corpo e ambiente, emozione ed estetica.

Glistudi sul soundscape(paesaggio sonoro), inteso come l’insieme dei suoni che ci circonda e ci condiziona nella nostra quotidianità, sollecitano un’osservazione sulla pervasività del suono nelle nostre vite e negli spazi in cui viviamo.

Potremmo immaginare di valorizzare e interpretare criticamente le peculiarità acustiche di un territorio per contribuire a ridare importanza sia alla pratica dell’ascolto che agli aspetti sociali della produzione sonora. Far vivere la nostra identità culturale unitamente alla capacita di comprensione e ascolto dell’identità altrui. Si potrebbe considerare il diritto ad un paesaggio sonoro salubre e desiderabile così come, “molte ricerche in campo evoluzionistico indicano una predisposizione per un “paesaggio ideale” (…)fatto di ambienti tranquilli, senza pericoli e accompagnati da figure positive. Esistono cioè elementi a noi familiari che ci fanno percepire una piacevolezza, una rassicurante consuetudine, una capacità di stare in sintonia senza sforzo perché ciò che vediamo rappresenta una modalità condivisa e quindi prevedibile e stabile.

Nella musica accade molto spesso un fenomeno assai simile. La nostra capacità di ascolto è

spesso condizionata da aspettative, anticipazioni che ci guidano nei processi percettivi ma anche che ci vincolano e ci condizionano. Uscire dalla una zona musicalmente sicura è impegnativo perchè imprevedibile, destabilizzante sia sul piano emotivo che cognitivo, prevede cioè un certo grado di avventurosità che non è certo uguale per tutti noi. Inoltre l’esperienza musicale ha il potere di immergerci in una situazione emotiva difficilmente prevedibile in anticipo e proprio per questa ragione il timore e l’insicurezza possono a volte avere la meglio sull’intensione di attraversare esperienze musicali inconsuete.

Probabilmente alle origini della sua storia, l’uomo era per necessità più aperto e libero a tutto il panorama sonoro che lo circondava rispetto a quanto non lo sia oggi anche se possiamo immaginare di recuperare questa qualità di ascolto in cui “l’occhio cerca ma l’orecchio, più accuratamente, trova”. (J.E. Berendt)

 

In un altro capitolo del libro si analizza il fenomeno della “simulazione incarnata” (V. Gallese), fondato sulla scoperta dei neuroni specchio, quale attivazione sensomotoria e viscero-motoria che si attiva nel cervello dell’osservatore in una sorta di corrispondenza tra chi osserva e ciò che viene osservato.  Il sistema senso-motorio risulta coinvolto nel riconoscimento delle emozioni e sensazioni espresse da altri. “Empatica ed estetica, la simulazione incarnata si attiva in relazione sia al contenuto dell’opera (…) sia alla traccia gestualedell’artista.”

Se questo accade nell’esperienza visiva osservando un’opera d’arte, si potrebbe immaginare uno stesso tipo di rispecchiamento anche nella performance musicale tra interprete e ascoltatore nel qual caso l’esperienza sonora non sarebbe così distante da quella visiva.

Indagando il senso di vitalità che caratterizza la nostra vita, secondo il pensiero di D. Stern, si osserva come le arti temporali, fra cui la musica, ci coinvolgano in quanto manifestazioni vitali che esprimono e risuonano perfettamente in noi. In musica il flusso temporale ci trascina, ci cattura in un’alternanza di tensione e distensione che appartiene e accomuna tutti gli esseri umani.

In particolare attraverso il suono della voce, che si esprime attraverso le parole, si rimuove la distanza tra esterno e interno assumendo la valenza di mezzo primario nella relazione con gli altri. Durante l’emissione vocale l’uomo fa esperienza dell’unità psico-acustico-motoria percepita come un unico processo chiuso in sé dove il suono ritorna all’orecchio ascoltando la propria stessa voce. Lo strumento è il suono: la parola che la voce produce e che dall’udito è resa possibile, conferisce all’uomo la capacità stessa di comunicare. L’orecchio mantiene nel tempo la sua relazione stretta con l’aspetto sonoro del parlato ed anche la postura verticale dell’uomo spinge il suo corpo all’ascolto dentro e fuori da sè.

Parlare equivale a suonare il corpo dell’altro con l’orecchio, ma anche con la pelle e con tutto il suo potenziale sensoriale (D. Anzieu) proprio perché l’essere umano è di costituzione sensibile così come la nostra esperienza del mondo è molteplice e plurale.

“Di conseguenza la costruzione delle nostre identità di genere è un assemblaggio sempre inclusivo: tutti i modi di essere in relazione con l’altro sono necessari”.

La metafora del viaggio dentro paesaggi diversi si presta ad essere traslata anche nell’esperienza dell’insegnamento: proprio perché avvicinarsi all’altro è sempre un po’ come attraversare un territorio sconosciuto da esplorare e con il quale interagire. “Un movimento che cerca di conciliare conosciuto e sconosciuto, vicino e distante: la sicurezza del familiare e l’eccitazione dell’esplorabile.”

Lingiardi scrive un volume ricco di riflessioni e messaggi che toccano le nostre corde intime producendo una musica che, per strade diverse, ci appartiene e che abbiamo ascoltato dentro di noi pur non sapendolo.

Mi sento di consigliare la lettura di Mindscapes proprio perché apre scenari grandi dentro i quali ciascuno può entrare in risonanza emotiva e intellettuale ricostruendo una molteplicità di paesaggi dentro i quali riconoscersi e conoscersi di nuovo.

 

 

Vittorio Lingiardi

Mindscapes

Psiche nel paesaggio

Raffaello Cortina Editore

Milano 2017

 

Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, è professore ordinario di Psicologia dinamica alla sapienza Università di Roma, dove dal 2006 al 2013 ha diretto la Scuola di specializzazione in Psicologia clinica. Con Nancy McWilliams è coordinatore scientifico e curatore del Psychodynamic Diagnostic Manual(PDM-2), già uscito negli Stati Uniti e in corso di pubblicazione presso le nostre edizioni. Collabora con l’inserto culturale Domenica del Sole 24 oree con il Venerdìdi Repubblica.

 

 

Riflessioni sul saggio: Ascoltare il silenzio, viaggio nel silenzio in musica di E. Ferrari

Oggi vi parlo di uno scritto che ben si sintonizza ad un tempo di vacanza e di meritato relax. Si tratta di un breve saggio che espone varie riflessioni sulla musica concentrandosi sulla prospettiva del silenzio.

In un mondo in cui il frastuono sovrasta inesorabile, nostro malgrado, la quotidianità di tutti noi, concentrare l’attenzione sui valori del silenzio è un’operazione che già di per sé permette un respiro più calmo e posato.

Per udire le diverse qualità dell’assenza di suoni l’ascolto si deve fare più sottile e attento tanto da poter percepire le diverse valenze semantiche del silenzio nello scorrere musicale. Possiamo, con questa attitudine, iniziare la nostra passeggiata taciturna alla scoperta dei tanti significati del silenzio in musica.

Il piccolo libro è diviso in due parti: la prima in cui l’autore descrive il silenzio come l’elemento fondamentale della musica e la seconda parte che analizza il “silenzio udibile” all’interno dei brani e costituito dalle pause, attraverso il confronto di tre interpretazioni diverse del Largo con gran espressione della Sonata op 7 per pianoforte di L. V. Beethoven.

Il silenzio è adeso con l’ascolto e questo binomio così semplice è il primo indispensabile passo per potersi sintonizzare sul presente, su un’attenzione focalizzata momento per momento.

Prima di un concerto c’è il silenzio del pubblico che si unisce al silenzio che l’interprete ha necessità di praticare con sé stesso.

“La sintonia col brano, quindi, non passa da un’identificazione, ma dal fare spazio dentro di noi.”pg14

Nelle pagine di questo scritto si evidenziano tante tipologie di silenzi: quello udibile, non udibile, evocato, doppio, relativo…indicando per ciascuna le diverse caratteristiche che li differenziano. Ma qui non voglio svelarvi i singoli dettagli, preferisco che il silenzio mostri la sua vita, che in questo elaborato si esplicita, ribaltando l’idea di vuoto che generalmente associamo al silenzio.

L’ascolto è la condizione primaria e indispensabile per apprezzare il valore del silenzio. Ma siamo davvero capaci di ascoltare? Qui potremo aprire un un’ampia dissertazione dato che questa capacità nel nostro tempo è veramente minata da un’eccessiva saturazione di antidoti all’apprezzamento del silenzio.

Certamente il passo immediatamente precedente all’ascolto è rappresentato dall’altissima qualità di attenzione che richiede: un’attenzione calma, paziente e senza la fretta di anticipare e di predire ciò che staremo per ascoltare ma, al contrario, pronta a sorprendersi in una disponibilità aperta e liberante. Questo vale sia quando ci troviamo ad ascoltare una musica quanto nel momento in cui siamo noi stessi a produrre musica; quando cioè rendiamo udibili i suoni attraverso un gesto, una condotta (Delalande) che produce una vibrazione. In ultima istanza lo strumento siamo noi, lo strumento è l’uomo stesso. Così tutti i mezzi, i dispositivi, servono a ricordarci e a far risuonare ciò che in noi intimamente e profondamente risuona e si esprime non solo attraverso i suoni ma anche anche nei silenzi e nelle pause.

Come anticipato nella seconda parte di questo brevissimo saggio si analizza Il Largo, con grande espressione della Sonata op.7 di L. V. Beethoven per pianoforte nell’incisione di W. Backhaus, W. Kempff e E. Gilels. L’autore compara le diverse interpretazioni osservando le diverse valenze espressive dei silenzi e di come queste rappresentano variabili considerevoli nella pratica interpretativa osservabile su uno stesso brano.

Vi suggerisco questa lettura per riflettere sulla componente creativa del silenzio, sul valore vivificante dell’ascolto e del silenzio interiore. Tutti questi temi sono stati già trattati nei mesi scorsi nella nostra rubrica Musica Studio perché rappresentano, per noi, lo sfondo costante del pensare e realizzare l’esperienza sonora. Un’attenzione sottile e curiosa che si nutre del silenzio interiore, dello spazio necessario a far emergere il proprio sentire in relazione con il mondo dentro e fuori di noi.  Durante queste calde giornate è rigenerante posare i pensieri sulle potenzialità espressive che l’ascolto di sé e del proprio silenzio esplicitano sia nella vita che nella pratica musicale…perciò, buon silenzio e buon ascolto a tutti voi!

 

Emanuele Ferrari è ricercatore di musicologia e storia della musica presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Milano –Bicocca, dove insegna Musica e didattica della musica. E’ tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio.

Ascoltare il silenzio, ed Mimesis, 2013

Riflessioni sul saggio: NOI perchè due sono meglio di uno di M. Ammaniti

Il saggio di cui scrivo oggi è solo apparentemente lontano dalla pratica musicale perché, come già visto per altri libri che abbiamo recensito, molti sono i fili che legano al mondo dei suoni le riflessioni apparentemente distanti perché non specificatamente musicali.

Premetto inoltre che toccherò solo alcuni aspetti di questo bellissimo saggio proprio in virtù di una scelta che privilegia interconnessioni e ibridazioni musicali dentro un libro che musicale non è.

Prepariamoci allora ad attraversare come in un viaggio paesaggi che diversamente ci suggestionano attraverso la lettura “sonora” del saggio di Ammaniti.

Nel libro l’autore traccia quella che può essere stata l’evoluzione dell’uomo attraverso le proprie capacità di cooperazione e collaborazione che hanno caratterizzato da sempre la specie umana.

In un’epoca come la nostra centrata sull’individualismo narcisistico la riflessione si concentra sulla cruciale importanza della relazione fin dalle primissime fasi dello sviluppo del bambino.

Ecco, già con queste premesse possiamo tracciare una linea di contatto con il mondo dei suoni.

L’esperienza di suonare uno strumento o cantare coinvolge il soggetto nella sua interezza fisica e psichica. Inizialmente la vibrazione stessa attraversa il corpo di chi suona avvolgendolo dall’interno in una risonanza che crea uno spazio esclusivo. Gli studi a riguardo ci dicono che questo spazio percepito come soggettivo di fatto non lo è, in quanto già all’inizio della vita ci troviamo in uno “spazio noi-centrico” sonoro che allaccia il corpo del bambino a quello della madre in una relazione che dai primordi si fa concreta e stabile. Perciò questa propriocezione del suono che vibra in noi è qualcosa che la nostra esperienza conosce già da tanto tempo.

Anche per i suoni esiste una sorta di qualità relazionale fin dal principio: possiamo ascoltare o ricordare una linea melodica per noi gradevole ma non pensiamo certo che un sol diesis sia bello di per sé! Sono le relazioni tra i suoni ad essere belle!  La musica non è percepita come un suono isolato ma come un insieme dotato di senso costituito da ciò che lo precede e da ciò che lo segue.

Chi fa musica così come chi l’ascolta vive in tempo reale una bilocazione cognitiva che gli permette di essere nel presente ma con un’attenzione al passato prossimo così come con un’anticipazione sull’imminente divenire. Tutto questo fa parte dell’esperienza sonora che, al pari del movimento nello spazio, non lascia traccia se non nella memoria di chi ascolta e/o produce suoni costituendo così una sorta di circolo virtuoso che contempla contemporaneamente lo stare presso di sé unitamente allo stare fuori e intorno a sé.

Questa capacità di stare con sé e contemporaneamente all’esterno si esplicita costantemente nella nostra vita come nella “risonanza empatica che implica un processo automatico che si attiva ogni volta che incontriamo un’altra persona e la guardiamo in viso”.  Prosegue l’autore: “Il mio cervello sta rispecchiando il cervello dell’altra persona e attraverso il mio riconoscimento di quello che sto provando in questo momento sono in grado di comprendere l’altra persona”.

In ogni momento della nostra vita siamo sempre in relazione con l’altro e, grazie a questo l’essere umano ha tante personalità quante le sue stesse relazioni interpersonali. L’Io che si costituisce non è più considerato un’entità rigida e unitaria ma al contrario un’entità in costante trasformazione dove unità e molteplicità coesistono parimenti.

Nel suo saggio Ammaniti ci conferma che i neuroni specchio ci aiutano nell’incontro con gli altri attivandosi nella risonanza emozionale e permettendoci di cogliere lo stato emotivo dell’altro.  Tale meccanismo d’interazione sociale è il più immediato e successivamente la mentalizzazione, “processo più lungo e complesso perché implica una partecipazione della corteccia prefrontale”, ci offre gli strumenti per accogliere la prospettiva degli altri così da coglierne le intensioni, i desideri oltre alle perturbazioni emotive.

Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che se restiamo aperti e disponibili alla relazione, alla reciprocità anche nella pratica educativa saremo in grado d’insegnare, prima ancora dei contenuti, il valore dell’interazione con l’altro e il vantaggio reciproco della collaborazione aspetti questi che nelle pratiche didattiche musicali sono ancora troppo spesso disconosciuti. L’autore a proposito scrive che “la scuola è una vera palestra per l’apprendimento dei codici delle interazioni sociali che verranno utilizzate non solo nell’incontro con gli altri bambini ma successivamente anche nella vita adulta”.

Il senso del noi è legato alla percezione di una connessione, ad una appartenenza sociale e culturale che rappresenta un ‘area di complicità condivisa dentro la quale l’empatia permette l’attivazione di un processo identificativo in quanto l’altro ci assomiglia e perciò viene assimilato al nostro essere.

In questo processo, scrive l’autore, i figli unici vivono un’ulteriore difficoltà in quanto si trovano al centro dell’attenzione e ciò produce lo sviluppo di atteggiamenti narcisistici che interferiscono con la scoperta dell’altro e del noi.

Eppure sappiamo che il nostro Sé si costituisce grazie alle relazioni significative che si stabiliscono già in fase prenatale come dimostrato dalle interazioni tra madre e bambino. Queste relazioni proseguono dopo la nascita, per mezzo del sonoro, attraverso il motherese che è il linguaggio tipico che si usa con i neonati plasmando il profilo melodico e prosodico ai fini comunicativi di scambio e di gioco. Questo tipo di linguaggio rappresenta una prima forma espressiva sonora a valenza comunicativa-emozionale ancor prima del valore semantico delle parole.

Tutte le diverse emozioni, le imitazioni, l’elaborazione si esprimono così attraverso le variazioni di altezza, ritmo e movimento sia da parte di chi invia l’informazione sia, per risonanza da chi la riceve. Oggi sappiamo che queste esperienze protomusicali sono determinanti non solo nel favorire adattamenti fisiologici ed emozionali ma anche nel delineare veri e propri modelli interattivi che acquistano una valenza significativa e socialmente condivisa. Si crea cioè una prima forma di scambio comunicativo costruito sulle variazioni prosodiche del linguaggio e del movimento con o senza parole e questa capacità di risonanza con l’altro si riattiva non solo con il neonato ma anche durante la crescita con i genitori prima e poi con i coetanei e con il gruppo sociale di appartenenza. In questo scenario l’influenza ambientale ha un ruolo primario che si esplicita prima nella famiglia e successivamente nel contesto sociale così come accade per la musica.  Infatti la percezione sonora dipende dalle esperienze musicali esperite dal soggetto che veicolano a sua volta le preferenze in termini di generi relativamente al piacere o meno di quell’esperienza.

Citando gli studi di D. Stern, l’autore illustra il concetto di sintonizzazione in termini di imitazione transmodale che ci permette di riprodurre lo stato d’animo e le emozioni sottostanti un comportamento dell’altro. Le interazioni relazionali, continua Ammaniti, nei primi anni di vita si costituiscono attraverso il Contagio, l’Empatia e la Mentalizzazione.

Anche qui potremo creare un parallelismo musicale.

Un primo momento di approccio alla pratica strumentale e vocale è quasi sempre un momento di imitazione: si riproduce ciò che ascoltiamo, ripetiamo il comportamento, il “come si fa”.

Contemporaneamente a questo l’azione formativa dovrebbe essere incentrata sulla capacità di entrare in risonanza Empatica con lo studente stimolando un’azione di autoempatia al fine di indagare su come ci si sente mentre lo si fa, quindi mentre si canta o si suona, quali sono le emozioni, lo stato propriocettivo, in una ricerca di risonanza affettiva con l’altro che mantenga integre le singole individualità.

In fine la Mentalizzazione, “la prospettiva cognitiva nei confronti dell’altro che consente di comprendere quali sono i suoi desideri e le sue intensioni”. Questa è certamente la parte più complessa in cui è possibile mettere a fuoco i pensieri relativi al come lo studente ha percepito di aver realmente fatto in termini di produzione sonora: è stato facile, difficile, c’è un senso alto o basso di autoefficacia, per come lo studente si sente e percepisce l’agio di poter comunicare al proprio insegnante per confrontare i propri e gli altrui desideri e intensioni. Tutto questo osservato in un’ottica di reciprocità e relazione ci può far sentire il valore di una conferma personale così importante quando s’intraprende lo studio di uno strumento musicale. L’essere accolti per come siamo con tutte le incertezze e le fragilità tecniche, emotive, senza sentirsi inefficaci o inadeguati relativamente al compito da svolgere. In merito a questi pensieri desidero aprire ad alcune considerazioni di ordine pedagogico che possono offrire ulteriori spunti di riflessione. L’insegnante in questo contesto potrà lavorare per costruire una didattica che si muova sulla dinamica del rispecchiamento in cui l’altro è uguale e diverso da sé in uno spazio temporale dove l’ascolto, lo sguardo e la risonanza empatica liberano dalla paura dell’errore che troppo spesso paralizza e inibisce la pratica musicale. Sarà un insegnante disponibile a lasciar accadere le cose, ad osservarle senza anticiparle non sovrapponendosi allo studente curando una qualità di sintonizzazione empatica capace di stare anche nelle situazioni di disagio, sconforto, incertezza, in una attenzione costante alle diverse istanze personali e libera dal giudizio e dalla valutazione. Un’ utopia? Forse, ma forse possibile e praticabile più di quanto si potrebbe pensare.

Il nostro viaggio volge al termine ma speriamo che le suggestioni trasmesse in queste righe possano produrre altri quesiti e curiosità da soddisfare. La lettura del libro NOI, perché due sono meglio di uno, rappresenta a mio parere un’ottima occasione per riflettere e pensare il mondo dell’io e il mondo del noi nella vita così come nell’insegnamento e nella pratica musicale.

 

Alessandra Seggi

 

 

MASSIMO AMMANITI

Neuropsichiatra infantile e psicoanalista, tra i più autorevoli psichiatri italiani, è professore onorario della Sapienza Università di Roma. Tra i suoi libri: “Nel nome del figlio” (Mondadori, 2003), “Pensare per due. Nella mente delle madri” ( Laterza, 2009) e “La nascita dell’intersoggettività” (con V. Gallese, Cortina, 2014). Collabora a “Repubblica”.

 

NOI perché due sono meglio di uno – Ed Il Mulino 2014 Bologna