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Recensione: Dario De Cicco: Il metodo Ward per l’educazione musicale

Leggere e conoscere gli scritti dei diversi autori che hanno sviluppato metodologie pedagogiche musicali è stato ed è un mio interesse personale e professionale ma mentre per le figure classiche, mi riferisco a E.J. Dalcroze, E. Willems, Z. Kodaly, C. Orff, solo per citare i nomi più conosciuti, è facile reperire scritti originali così non è per quanto riguarda il Metodo Ward.

Ho avuto però la fortuna di avere, quasi senza sapere come, il libro “Musica per le scuole elementari, Libro di primo anno ad uso degli insegnanti” di Justine Ward pubblicato a Roma nel 1937. La lettura di questo prezioso libricino, dalle pagine ingiallite dal tempo, mi ha permesso di conoscere il pensiero della Ward e rileggendolo, anche per ragioni professionali, ha continuato a sorprendermi sia per la cura estremamente dettagliata degli argomenti trattati sia per la modernità del pensiero pedagogico musicale presentato.

Ecco perché mi ha particolarmente incuriosito leggere il libro di cui qui tratterò scritto nel 2016 da Dario De Cicco dal titolo: “IL metodo Ward per l’educazione musicale, genesi, lineamenti ed esperienze”.

Un testo così mancava nel panorama editoriale italiano, uno scritto che mettesse in luce l’opera metodologica musicale ancora poco conosciuta che questa straordinaria donna ha lasciato nei suoi scritti.

Inoltre mi è molto gradito parlare qui di una metodologia elaborata da una donna studiosa, ricercatrice e“particolarmente versata sull’ascolto dell’altro”, peculiarità e aspetti molto risonanti nel nostro team tutto femminile di Musicastudio.

In questa recensione le citazioni oscilleranno fra parti di testi ripresi dal libricino della Ward del 1937 e parti del testo di Dario De Cicco del 2016: ho deciso di non segnalare le distinzioni in quanto l’intreccio che si crea fra i due autori è così integrato l’uno nell’altro da consentirmi questa atipica libertà.

Entriamo nel vivo: chi era Justine Bayard Cutting Ward?

Nel volume, Dario De Cicco, ci presenta dettagliatamente la biografia della Ward ( Morristown _ New Jersey 1879 / Washington 1975) evidenziando il suo percorso formativo e tutti contatti che ella ha avuto con la realtà religiosa americana, unitamente a quelli con i maestri della scuola di canto gregoriano di Solesmes.

Il lavoro di ricerca e di documentazione che l’autore presenta è minuzioso e arricchito da numerosi allegati che testimoniano “gli aspetti caratterizzanti la modellizzazione didattica wardiana contestualizzandoli all’interno del divenire delle realtà ecclesiali, sociali e musicali statunitensi ed europee”. Inoltre l’autore compie un’indagine arricchendo il testo con interviste sui contesti applicativi italiani della metodologia e con una parte dedicata alla produzione editoriale indicante gli autori e i rispettivi titoli dei brani musicali contenuti nei diversi libri tradotti del metodo pubblicati in Italia nel corso degli anni. In particolare “dettagliatissime sono le indicazioni metodologiche presenti nei libri rivolti agli insegnanti che specificano e organizzano ogni elemento contenutistico, collocandolo all’interno di sequenze di apprendimento significative”.

 

Sicuramente questi aspetti sono quelli che hanno maggiormente attirato la mia attenzione e già a partire dall’introduzione della Ward al suo libro sopra citato si legge:” lo scopo che si propone la pubblicazione di questa serie di libri…è quello di far si che la possibilità di cantare e di esprimersi in musica non sia limitata ad esseri di talento, ma diventi patrimonio comune…non è una teoria che vogliamo diffondere, bensì un’esperienza.”

Queste affermazioni sono di grande modernità in particolare nel considerare l’esperienza pratica come prima fase del processo di apprendimento dalla quale deriverà poi la teoria. Un’affermazione che può sembrare ovvia ma che sul versante didattico musicale ancora oggi stenta a decollare: troppe volte si inizia lo studio della musica impostando la teoria posponendo l’ordine più naturale del far vivere l’esperienza dalla quale derivare la teoria. Continuo con alcune citazioni tratte dallo stesso libro.

“Se il ritmo è essenzialmente movimento, è chiaro che non se ne può far conoscere il senso che mediante il movimento. Noi vogliamo movimenti a cui partecipi tutto il corpo, movimenti che facciano sentire il ritmo nei muscoli delle braccia e delle gambe: prima la percezione fisica del ritmo, poi, e per mezzo di essa, la percezione intellettiva”.

Qui si evidenzia l’influenza del pensiero di E.J.Dalcroze , J.Dewey , M.Montessori, tutti sostenitori di una formazione centrata sul fare e sullo studente: “il maestro deve in tutti i casi stimolare l’alunno ad usare le proprie forze, aiutandolo solo indirettamente”…”l’alunno imparerà a servirsi della sua capacità di pensare e a questa il maestro farà continuamente appello”.

Oggi si parlerebbe di attivare processi metacognitivi, di sviluppare la propria motivazione intrinseca e l’empowerment attraverso strategie per rendere lo studente competente e autoefficacie.

La Ward inoltre scrive: “Una classe annoiata, distratta e senza vita, generalmente prova che la lezione non è stata preparata bene” …” Quando scorgiamo nella scolaresca un senso di noia, dobbiamo cercare di dissiparlo subito, passando dalla concentrazione all’azione o introducendo qualcosa d’inaspettato. Non ci dobbiamo sentire menomamente soddisfatti di noi stessi, se non abbiamo creato, durante la lezione, un’atmosfera di contentezza. Questa è la prova più sicura di una buona lezione”.

Includere il piacere, la sorpresa, un clima sereno durante le lezioni non è forse un modo ancora oggi condivisibile di star bene a scuola?

Sempre nello stesso libro l’autrice indica vari schemi di lezione così come una serie di esercizi per stimolare un’alta concentrazione fino ad un relativo riposo corredando le indicazioni con suggerimenti operativi specifici utili sia per l’insegnante principiante che per quello esperto.

La Ward scrive “i requisiti di una buona lezione sono:

Brevità. Venti minuti in media sono sufficienti, se l’insegnante passa prontamente da un esercizio all’altro, senza perder tempo in vane spiegazioni e se la classe segue attenta e disciplinata. Completezza. In ogni lezione bisogna toccare tutti i possibili elementi: timbro, altezza, ritmo, notazione, ecc.

Progressività. Ogni lezione deve rappresentare un piccolo passo avanti.

Organicità. Ogni esercizio deve connettersi col precedente e preparare il successivo.

Varietà. Non bisogna seguire sempre lo stesso ordine di esercizi, ma variarlo tenendo soprattutto presente che gli esercizi che richiedono maggiore concentrazione mentale devono alternarsi con quelli che ne richiedono meno o possono considerarsi di relativo riposo.”

I requisiti sopracitati non hanno subito l’usura del tempo e sono a tutt’oggi condivisibili per realizzare una lezione efficacemente strutturata che soddisfi il docente quanto lo studente.

 

Nel volume di Dario De Cicco si analizzano le caratteristiche del metodo articolato in quattro livelli progressivi e rivolto ai bambini della scuola primaria con l’obiettivo di insegnare a cantare leggendo attingendo al repertorio gregoriano e a quello di natura popolare. I “periodi di apprendimento” indicati nel metodo della Ward sono:

Imitazione pura: intendendo la capacità di stimolare “condotte esplorative spontanee”.

Riflessione: intendendo la capacità di condurre il bambino “al possesso personale e all’uso indipendente e libero degli elementi musicali” “…gli alunni ci mostreranno le loro melodie, composte spontaneamente o dietro nostro invito. Nel correggerle noi dobbiamo mostrare il maggior rispetto possibile della personalità dei piccoli autori, limitando le correzioni allo stretto necessario e proponendo modifiche in forma di consigli che non umilino e non svalutino mai il lavoro del fanciullo, il quale, diversamente, non si sentirebbe incoraggiato a continuare”

Sviluppo-autonomia: “esprimendo consapevolmente ..le caratteristiche della propria identità musicale”;

Oggi si parlerebbe di sviluppo metacognitivo del bambino, d’indipendenza e di transfert di competenze per la soluzione di problemi.

Tutto molto attuale e ancora oggi condivisibile anche nell’attenzione e cura con cui la Ward chiede all’insegnante di considerare la personalità musicale degli studenti senza minarne il senso di autoefficacia.

Un’altra raccomandazione che la Ward espone per l’insegnante: “è importante ch’egli” (riferito allo studente) “non abbia mai la sensazione di trovarsi di fronte ad una difficoltà superiore alle sue forze: ciò lo scoraggerebbe e muterebbe in tormento la gioia dell’apprendere”.

Come non condividere tale premura? Ma quante volte non accade soprattutto nella pratica musicale? Quante volte il piacere, il ben-essere rimangono fuori dalle porte delle nostre aule?

Sembra strano che il piacere dell’imparare risulti ancora oggi un impedimento invece che un propulsore di energia positiva eppure molto spesso è proprio così che accade.

Nella strutturazione metodologica del percorso la Ward include la ricorsività tra i diversi stadi con l’obiettivo di attivare nel bambino “volontà, attenzione, riflessione” nutrendo quello che oggi s’intende per motivazione intrinseca data dai rinforzi positivi dell’insegnate verso lo studente.

Così scrive J. Ward: “I lavori degli alunni devono essere sempre pregiati e lodati, anche quando richiedono correzioni le quali non debbono mai offendere la personalità del fanciullo, né spengere la fiamma dell’entusiasmo.”

Un altro aspetto interessante è l’idea che l’esperienza musicale possa essere integrata con le altre discipline di studio dei bambini tanto che dalla “modellizzazione originaria della Ward erano esclusi i musicisti professionisti perché non ritenuti in possesso di “quelle indispensabili cognizioni di psicologia infantile che li trattenga dall’imporre senz’altro la loro dottrina caricando le piccole menti di un peso insopportabile ed inutile”.

Un’esigenza quella della preparazione psico-pedagogica dei musicisti tutt’oggi molto evidente nel nostro paese e presente a tutti i livelli di formazione: lo sappiamo bene noi che lavoriamo all’interno delle Scuole di Didattica della Musica nei Conservatori!

Alla luce di tutte queste considerazioni potremmo auspicare una nuova pubblicazione dei libri di Justine Ward così ricchi di suggerimenti per l’insegnante che desideri strutturare un percorso formativo musicale tenendo conto delle istanze dei propri studenti di indicazioni pratiche vocali, ritmiche e di formazione dell’orecchio che oltrepassano la datazione inserendosi serenamente a pieno titolo all’interno delle indicazioni pedagogiche contemporanee.

 

Ci sarebbero davvero moltissime considerazioni da fare sulle proposte nel metodo ma per non dilungarmi di più proverò a stringere sugli elementi musicali specifici che costituiscono i paradigmi di contenuto della metodica wardiana.

Il cuore del metodo, come già scritto, è l’esperienza corale in cui si alternano proposte individuali e collettive attraverso pratiche attive, ludiche centrate sul fare e non sulla teoria dove lo studente è protagonista, ha un ruolo attivo ed è incoraggiato a produrre le proprie idee musicali.

L’insegnamento del ritmo avviene attraverso esperienze di movimento corporeo nello spazio includendo l’ondeggiamento delle braccia e seguendo il fraseggio musicale analogamente a come J.E. Dalcroze propone nel suo metodo. Nei quattro anni previsti di studio la Ward propone la pratica del ritmo mensurato e del ritmo libero, come nel canto gregoriano, l’utilizzo del ritmogramma come introdotto dalla “ritmica integrale” di Laura Bassi, “la pronuncia di parole ritmiche associate al movimento”, esercizi di lettura di brevi disegni ritmici, dettato metrico, ecc.

Specifica indicazione è data dalla “Chironomia del movimento ritmico” un’espressione gestuale e grafica che aderisce perfettamente alle caratteristiche del repertorio gregoriano.

Il metodo tratta anche l’educazione vocale indicando strategie operative, vocalizzi e proposte suddivise per i diversi anni di corso dedicando un’attenzione distinta agli “stonati” proponendo una serie di esercizi da provare per recuperare gli studenti con difficoltà d’intonazione che, a parere della Ward sono riconducibili ad un’insufficiente educazione dell’orecchio.

Il problema della notazione musicale viene affrontato insieme ed in funzione all’esperienza pratica: prima il suono e poi il segno indicato con i numeri arabi. La scrittura sul pentagramma viene introdotta prima con un rigo per poi passare a due fino a cinque. Nel quarto anno viene insegnata la notazione di S.Gallo e quella Vaticana per leggere agilmente il repertorio gregoriano. La Ward utilizza il Do mobile per la lettura cantata e la chironomia indicante i gradi con il numero delle dita specificando tutta una serie di esercizi e attività progressive da proporre ai bambini per esercitarsi in tali pratiche.

Dario De Cicco nel suo volume analizza la realtà europea e italiana di fine ottocento e inizi novecento evidenziando le indicazioni legislative relative all’insegnamento della musica e l’influenza che le varie scuole di didattica musicale hanno avuto sulla formazione di quegli anni.

Inoltre l’autore presenta una larga documentazione di testimonianze, lettere e riproduzioni di foto d’epoca che permettono al lettore d’inquadrare chiaramente la situazione storica di quegli anni.

Nell’ultima parte del libro D. De Cicco indica la divulgazione e la pratica del metodo in Italia avvenuta fra la prima e la seconda guerra mondiale.

A questo punto riconosco un profumo di casa. Infatti il metodo Ward fu insegnato in Casentino dal 1923 in particolare a Serravalle di Bibbiena, poi anche Badia Prataglia nel 1929, entrambe cittadine in provincia di Arezzo, che è la mia città natale.

Ritornando con la memoria ad Arezzo, mi ricordo che negli anni settanta/ottanta in cui cantavo come corista nel coro polifonico “F. Coradini” diretto dal M° Fosco Corti, c’erano alcuni coristi che scrivevano i numeri sotto le note della propria parte cantando in do mobile e utilizzando il metodo Ward imparato proprio a Serravalle e a Badia Prataglia. Allora mi sembrava curioso questo modo di leggere le note ma restavo stupita dall’efficacia che produceva nell’intonazione degli intervalli rispetto al nostro sistema tradizionale di lettura della musica.

Con questa nota un po’ autobiografica chiudo la mia recensione con l’invito a leggere il volume scritto da Dario de Cicco per conoscere l’opera di una didatta dal pensiero così innovativo e moderno che ancora oggi ha tanto da insegnare a tutti coloro che operano nella pratica formativa corale e musicale più in generale.

Alessandra Seggi

D. De Cicco, Il metodo Ward per l’educazione musicale

Genesi, lineamenti ed esperienze, ed Lim, Lucca 2016 (pg 369)

 

Riflessioni sul saggio: Vittorio Lingiardi, Mindscapes Psiche nel paesaggio

La lettura di Mindscapes mi ha cattura e mi ha fatto attraversare un affascinante labirinto multisensoriale dentro e fuori un universo d’immagini, forme e parole. In ogni capitolo l’autore, Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, apre scenari diversi come giocando con un caledoscopio che permette di comporre e ricomporre riflessioni psicoanalitiche, letterarie e neurestetiche strutturando di volta in volta scenari inusuali e originali. Le immagini di opere pittoriche che arricchiscono le pagine del libro sono spazi che contrappuntano gradevolmente il flusso della scrittura così che, per il lettore, l’effetto del viaggio nel paesaggio si fa ancora più realistico e seducente.

L’idea centrale è che, non solo non siamo separabili dai nostri luoghi, ma che che ci vogliono molti luoghi dentro di noi per costruire la nostra storia e la nostra identità. Attraverso questo legame si crea una relazione stretta fra la psiche e i luoghi che attraversiamo: il paesaggio è in noi e noi siamo in lui non solo con lo sguardo ma con tutta la componente corporea e sensoriale. “Sonomindscapes: paesaggi raccolti nella psiche e psiche immersa nei paesaggi. Percezioni visive che diventano visioni mentali”. Nella nostra relazione con l’ambiente, fin dall’inizio della vita, si crea una connessione che include la discriminazione cognitiva e la componente emotiva mediata dalle diverse figure di chi ci ha cresciuti e si è preso cura di noi. In questa circolarità si forma l’identità e la” sintonizzazione esteticacon il mondo da cui dipenderanno i nostri gusti e disgusti”.  Come in una figura circolare i paesaggi che ci appartengono sono tali “perchè li abbiamo riconosciuti nel momento in cui li abbiamo trovati” e “sono il risultato dell’incontro tra ciò che vediamo (…) e la nostra estetica degli oggetti, la nostra memoria e la nostra solitudine.”

Attraverso riflessioni psicoanalitiche, estetiche e artistiche l’autore ci conduce alla scoperta di un paesaggio che ci appartiene ma che allo stesso tempo siamo in grado di rimodellare e rinnovare nella memoria.

Il libro è strutturato per temi dai nomi suggestivi: “La fioritura umana”, Tasche piene di farfalle”,” Paesaggi neuroestetici”, “Chiudete gli occhi e vedrete”, “Il riverbero”, “Dis-orientarsi” all’interno dei quali l’autore viaggia liberamente anche al di là dei confini tracciati dal titolo stesso.

Lingiardi scrive un volume complesso e non facile ma sicuramente curioso che ha bisogno di essere gustato con lentezza e assaporato con calma. Un libro che si può leggere e rileggere a pezzi un po’ come un saggio o una poesia regalandoci uno spazio di tempo dilatato e capace di abbracciare le infinite sfumature che l’autore con cura disegna.

 

Cosa ha che fare tutto questo con la nostra rubrica di recensioni musicali?

La lettura di Mindscapes permette di fare un parallelismo con il mondo sonoro e con una sorta di paesaggio acustico che si configura ancor prima di nascere e che già dai primi giorni di vita contribuisce a creare l’identità, questa volta sonora, di ciascuno di noi. L’esperienza dell’ascolto non è riferita solo all’esterno ma anche alla capacità di ascoltare il proprio mondo interiore indagando cosa risuona nel nostro intimo unitamente agli eventi sonori che hanno contribuito a nutrire la nostra vita. Da questa prospettiva anche per i suoni possiamo affermare che “esiste un legame tra come siamo e la forma che diamo al nostro mondo interno” e come, nelle varie fasi della vita, ciascuno di noi è capace di creare il proprio scenario acustico che più gli corrisponde.

Il legame tra udito e fonazione, dove il primo determina il secondo, ha permesso di provare che gli uomini non sentono allo stesso modo in ogni parte del mondo e, secondo Tomatis, questa è una delle origini delle grandi varietà di lingue umane. (A.Tomatis)Il tutto a conferma del nostro costante legame tra corpo e ambiente, emozione ed estetica.

Glistudi sul soundscape(paesaggio sonoro), inteso come l’insieme dei suoni che ci circonda e ci condiziona nella nostra quotidianità, sollecitano un’osservazione sulla pervasività del suono nelle nostre vite e negli spazi in cui viviamo.

Potremmo immaginare di valorizzare e interpretare criticamente le peculiarità acustiche di un territorio per contribuire a ridare importanza sia alla pratica dell’ascolto che agli aspetti sociali della produzione sonora. Far vivere la nostra identità culturale unitamente alla capacita di comprensione e ascolto dell’identità altrui. Si potrebbe considerare il diritto ad un paesaggio sonoro salubre e desiderabile così come, “molte ricerche in campo evoluzionistico indicano una predisposizione per un “paesaggio ideale” (…)fatto di ambienti tranquilli, senza pericoli e accompagnati da figure positive. Esistono cioè elementi a noi familiari che ci fanno percepire una piacevolezza, una rassicurante consuetudine, una capacità di stare in sintonia senza sforzo perché ciò che vediamo rappresenta una modalità condivisa e quindi prevedibile e stabile.

Nella musica accade molto spesso un fenomeno assai simile. La nostra capacità di ascolto è

spesso condizionata da aspettative, anticipazioni che ci guidano nei processi percettivi ma anche che ci vincolano e ci condizionano. Uscire dalla una zona musicalmente sicura è impegnativo perchè imprevedibile, destabilizzante sia sul piano emotivo che cognitivo, prevede cioè un certo grado di avventurosità che non è certo uguale per tutti noi. Inoltre l’esperienza musicale ha il potere di immergerci in una situazione emotiva difficilmente prevedibile in anticipo e proprio per questa ragione il timore e l’insicurezza possono a volte avere la meglio sull’intensione di attraversare esperienze musicali inconsuete.

Probabilmente alle origini della sua storia, l’uomo era per necessità più aperto e libero a tutto il panorama sonoro che lo circondava rispetto a quanto non lo sia oggi anche se possiamo immaginare di recuperare questa qualità di ascolto in cui “l’occhio cerca ma l’orecchio, più accuratamente, trova”. (J.E. Berendt)

 

In un altro capitolo del libro si analizza il fenomeno della “simulazione incarnata” (V. Gallese), fondato sulla scoperta dei neuroni specchio, quale attivazione sensomotoria e viscero-motoria che si attiva nel cervello dell’osservatore in una sorta di corrispondenza tra chi osserva e ciò che viene osservato.  Il sistema senso-motorio risulta coinvolto nel riconoscimento delle emozioni e sensazioni espresse da altri. “Empatica ed estetica, la simulazione incarnata si attiva in relazione sia al contenuto dell’opera (…) sia alla traccia gestualedell’artista.”

Se questo accade nell’esperienza visiva osservando un’opera d’arte, si potrebbe immaginare uno stesso tipo di rispecchiamento anche nella performance musicale tra interprete e ascoltatore nel qual caso l’esperienza sonora non sarebbe così distante da quella visiva.

Indagando il senso di vitalità che caratterizza la nostra vita, secondo il pensiero di D. Stern, si osserva come le arti temporali, fra cui la musica, ci coinvolgano in quanto manifestazioni vitali che esprimono e risuonano perfettamente in noi. In musica il flusso temporale ci trascina, ci cattura in un’alternanza di tensione e distensione che appartiene e accomuna tutti gli esseri umani.

In particolare attraverso il suono della voce, che si esprime attraverso le parole, si rimuove la distanza tra esterno e interno assumendo la valenza di mezzo primario nella relazione con gli altri. Durante l’emissione vocale l’uomo fa esperienza dell’unità psico-acustico-motoria percepita come un unico processo chiuso in sé dove il suono ritorna all’orecchio ascoltando la propria stessa voce. Lo strumento è il suono: la parola che la voce produce e che dall’udito è resa possibile, conferisce all’uomo la capacità stessa di comunicare. L’orecchio mantiene nel tempo la sua relazione stretta con l’aspetto sonoro del parlato ed anche la postura verticale dell’uomo spinge il suo corpo all’ascolto dentro e fuori da sè.

Parlare equivale a suonare il corpo dell’altro con l’orecchio, ma anche con la pelle e con tutto il suo potenziale sensoriale (D. Anzieu) proprio perché l’essere umano è di costituzione sensibile così come la nostra esperienza del mondo è molteplice e plurale.

“Di conseguenza la costruzione delle nostre identità di genere è un assemblaggio sempre inclusivo: tutti i modi di essere in relazione con l’altro sono necessari”.

La metafora del viaggio dentro paesaggi diversi si presta ad essere traslata anche nell’esperienza dell’insegnamento: proprio perché avvicinarsi all’altro è sempre un po’ come attraversare un territorio sconosciuto da esplorare e con il quale interagire. “Un movimento che cerca di conciliare conosciuto e sconosciuto, vicino e distante: la sicurezza del familiare e l’eccitazione dell’esplorabile.”

Lingiardi scrive un volume ricco di riflessioni e messaggi che toccano le nostre corde intime producendo una musica che, per strade diverse, ci appartiene e che abbiamo ascoltato dentro di noi pur non sapendolo.

Mi sento di consigliare la lettura di Mindscapes proprio perché apre scenari grandi dentro i quali ciascuno può entrare in risonanza emotiva e intellettuale ricostruendo una molteplicità di paesaggi dentro i quali riconoscersi e conoscersi di nuovo.

 

 

Vittorio Lingiardi

Mindscapes

Psiche nel paesaggio

Raffaello Cortina Editore

Milano 2017

 

Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, è professore ordinario di Psicologia dinamica alla sapienza Università di Roma, dove dal 2006 al 2013 ha diretto la Scuola di specializzazione in Psicologia clinica. Con Nancy McWilliams è coordinatore scientifico e curatore del Psychodynamic Diagnostic Manual(PDM-2), già uscito negli Stati Uniti e in corso di pubblicazione presso le nostre edizioni. Collabora con l’inserto culturale Domenica del Sole 24 oree con il Venerdìdi Repubblica.

 

 

Riflessioni sul saggio: Ascoltare il silenzio, viaggio nel silenzio in musica di E. Ferrari

Oggi vi parlo di uno scritto che ben si sintonizza ad un tempo di vacanza e di meritato relax. Si tratta di un breve saggio che espone varie riflessioni sulla musica concentrandosi sulla prospettiva del silenzio.

In un mondo in cui il frastuono sovrasta inesorabile, nostro malgrado, la quotidianità di tutti noi, concentrare l’attenzione sui valori del silenzio è un’operazione che già di per sé permette un respiro più calmo e posato.

Per udire le diverse qualità dell’assenza di suoni l’ascolto si deve fare più sottile e attento tanto da poter percepire le diverse valenze semantiche del silenzio nello scorrere musicale. Possiamo, con questa attitudine, iniziare la nostra passeggiata taciturna alla scoperta dei tanti significati del silenzio in musica.

Il piccolo libro è diviso in due parti: la prima in cui l’autore descrive il silenzio come l’elemento fondamentale della musica e la seconda parte che analizza il “silenzio udibile” all’interno dei brani e costituito dalle pause, attraverso il confronto di tre interpretazioni diverse del Largo con gran espressione della Sonata op 7 per pianoforte di L. V. Beethoven.

Il silenzio è adeso con l’ascolto e questo binomio così semplice è il primo indispensabile passo per potersi sintonizzare sul presente, su un’attenzione focalizzata momento per momento.

Prima di un concerto c’è il silenzio del pubblico che si unisce al silenzio che l’interprete ha necessità di praticare con sé stesso.

“La sintonia col brano, quindi, non passa da un’identificazione, ma dal fare spazio dentro di noi.”pg14

Nelle pagine di questo scritto si evidenziano tante tipologie di silenzi: quello udibile, non udibile, evocato, doppio, relativo…indicando per ciascuna le diverse caratteristiche che li differenziano. Ma qui non voglio svelarvi i singoli dettagli, preferisco che il silenzio mostri la sua vita, che in questo elaborato si esplicita, ribaltando l’idea di vuoto che generalmente associamo al silenzio.

L’ascolto è la condizione primaria e indispensabile per apprezzare il valore del silenzio. Ma siamo davvero capaci di ascoltare? Qui potremo aprire un un’ampia dissertazione dato che questa capacità nel nostro tempo è veramente minata da un’eccessiva saturazione di antidoti all’apprezzamento del silenzio.

Certamente il passo immediatamente precedente all’ascolto è rappresentato dall’altissima qualità di attenzione che richiede: un’attenzione calma, paziente e senza la fretta di anticipare e di predire ciò che staremo per ascoltare ma, al contrario, pronta a sorprendersi in una disponibilità aperta e liberante. Questo vale sia quando ci troviamo ad ascoltare una musica quanto nel momento in cui siamo noi stessi a produrre musica; quando cioè rendiamo udibili i suoni attraverso un gesto, una condotta (Delalande) che produce una vibrazione. In ultima istanza lo strumento siamo noi, lo strumento è l’uomo stesso. Così tutti i mezzi, i dispositivi, servono a ricordarci e a far risuonare ciò che in noi intimamente e profondamente risuona e si esprime non solo attraverso i suoni ma anche anche nei silenzi e nelle pause.

Come anticipato nella seconda parte di questo brevissimo saggio si analizza Il Largo, con grande espressione della Sonata op.7 di L. V. Beethoven per pianoforte nell’incisione di W. Backhaus, W. Kempff e E. Gilels. L’autore compara le diverse interpretazioni osservando le diverse valenze espressive dei silenzi e di come queste rappresentano variabili considerevoli nella pratica interpretativa osservabile su uno stesso brano.

Vi suggerisco questa lettura per riflettere sulla componente creativa del silenzio, sul valore vivificante dell’ascolto e del silenzio interiore. Tutti questi temi sono stati già trattati nei mesi scorsi nella nostra rubrica Musica Studio perché rappresentano, per noi, lo sfondo costante del pensare e realizzare l’esperienza sonora. Un’attenzione sottile e curiosa che si nutre del silenzio interiore, dello spazio necessario a far emergere il proprio sentire in relazione con il mondo dentro e fuori di noi.  Durante queste calde giornate è rigenerante posare i pensieri sulle potenzialità espressive che l’ascolto di sé e del proprio silenzio esplicitano sia nella vita che nella pratica musicale…perciò, buon silenzio e buon ascolto a tutti voi!

 

Emanuele Ferrari è ricercatore di musicologia e storia della musica presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’università di Milano –Bicocca, dove insegna Musica e didattica della musica. E’ tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio.

Ascoltare il silenzio, ed Mimesis, 2013